Di Veronica Schmilinsky
Quarantena giorno tre: È più difficile di quanto mi aspettassi. Non è la mia prima volta in isolamento, a 25 anni mi sono rotta un legamento al ginocchio e ho dovuto passare diversi mesi a casa, settimane senza uscire dal mio appartamento, non è stato facile ma non ricordo di essermi sentita sopraffatta già al terzo giorno.
Se non sei a rischio se sei in quarantena, è probabile che tu lo stia facendo per prenderti cura degli altri. Complimenti, sei un cittadino esemplare. Ora, cosa dire dell’autoconservazione, del prendersi cura di sé stessi in un momento strano per il quale siamo poco o per niente preparati.
La differenza principale che noto mettendo a confronto entrambi gli episodi di isolamento è la responsabilità. A 25 anni, a riposo, il mio partner in solitudine era il mio computer e tutti i film e le serie che internet poteva offrire, le mie abitudini di riposo e alimentari erano cambiate, ma poco importava dato che la mia unica responsabilità era essere a letto a riprendermi da un intervento chirurgico.
Oggi, devo lavorare da casa, fare da maestra della scuola materna a mia figlia di 5 anni, cucinare 3 pasti al giorno e lavare tutti i piatti derivanti dall’accesso alla mia cucina; devo mantenere il più possibile una routine mentre rimango a casa tutto il giorno, non sembra molto, ma lo è.
Il terzo giorno di isolamento sono scoppiata in un attacco di rabbia che aveva poco a che fare con piatti rotti sul pavimento, le eruzioni cutanee sono arrivate come mai prima d’ora. È sono solo al terzo giorno di quarantena!
Ciò che mi spaventa di più nel sentirmi in questo modo è che non so da dove venga questa reazione. Sono abituata alla introspezione, lo faccio spesso ed è diventato uno dei miei punti di forza: intelligenza intrapersonale, la chiama Gardner. Riconosco i miei stati d’animo e le loro cause, ma ora navigo in acque inesplorate. Sono sicura che moti di noi ci sentiamo così.
Venerdì, quando ci hanno annunciato che avremmo fatto remote working, anche prima che venissero adottate misure ufficiali per consentirci di farlo, la sensazione era quella di un giorno strano, un giorno con un assaggio di condanna, incertezza e un po’ di nervosismo. Mi vengono in mente altri momenti dove ho avuto questa sensazione che non riesco a descrivere: la caduta delle torri gemelle, l’11 aprile 2002 mentre massacravano in diretta TV il popolo di Caracas, ed ogni volta che venivo a conoscenza di una catastrofe naturale in qualche posto del pianeta.
Il punto è che la responsabilità è di tutti, prendersi cura dei più vulnerabili non spetta solo allo Stato o alle istituzioni pubbliche, è compito di ciascuno di noi. Quindi prendiamo l’emergenza che si respira tra le quattro mura, le statistiche sul contagio nelle notizie, l’incertezza sulle misure che verranno prese nel paese… sommiamo tutto questo alle attività quotidiane che ora si moltiplicano perché i bambini (quelli che li hanno) sono anche a casa e non capiscono bene cosa sta succedendo e non dovrebbero, e devono seguire più o meno come al solito.
Mentre lo scrivo, mi rendo conto che, è quel senso di responsabilità, del mio lavoro, di mia figlia, della salute del paese e della mia, che mi ha sopraffatto questa mattina. Poi faccio un respiro profondo, mi allontano dalla situazione (voglio dire, entro in bagno, il mio santuario) e penso. La chiave sta nel chiedere aiuto e organizzarmi. Se hai qualcuno con cui condividere le responsabilità, siediti per esaminare le attività che si sommano e come distribuire la miriade di responsabilità. Se sei solo, dipende solo da te, devi accelerare il processo organizzativo.
In entrambi i casi, la cosa più importante è prendere quel momento di reset, isolamento dall’isolamento, ripensare ciò che viene fatto e perché, e dotarsi di un piano che mantiene più o meno l’idea della normalità in questi tempi di crisi. Non è una mia idea, è stato il consiglio del mio leader via WhatsApp quando ci siamo sentiti nel bel mezzo della mia crisi esistenziale.
Lo dico per esperienza personale (certo che Marie Kondo mi approverebbe), non ci sono ricette infallibili per affrontare le sfide nell’era 4.0 o le pandemie nel mondo globalizzato, ma se c’è una cosa di cui mi fido è ascoltare me stessa, registrare cosa mi succede quando ci sono nuovi stimoli. L’autoconsapevolezza è un viaggio senza fine, che si evolve con noi stessi. Sapere quali sono gli strumenti che ho a disposizione e capire da dove provengono le nostre reazioni ci permette di anticiparle e sviluppare piani per alleviarne gli effetti.
Ti invito ad ascoltarti di più in questi tempi di confinamento, dove le ore durano tre volte tanto e la settimana sembra non finire, per connetterti con le emozioni estreme che puoi sentire, comprendendole e soprattutto cercando aiuto ogni volta che ne hai bisogno. Siamo a portata di clic dal contatto umano, per fortuna.
Continueremo in questo cammino, condividendo ciò che ci aiuta ad auto-preservarci per rimanere un po’ noi stessi in questo mondo strano e mascherato che non ci appartiene.
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