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Casi di successo• Gestione del talento

Storia di un profilo

Agosto 26, 2014

da Carolina Bussadori
Condividiamo con voi un articolo di uno dei nostri Partner in Italia: UBF Partner Srl, che utilizza i nostri strumenti per apportare del valore aggiunto ai loro processi di coaching e formazione.

Un cervello, una faccia, un profilo

Era stato un manager con qualche successo conseguito da raccontare ad amici ed  Head-hunters.

Non un Top manager, ma pur sempre il direttore marketing di una divisione piuttosto importante in una grande multinazionale.

Quando aveva lasciato la sua posizione (c’erano giovani che spingevano, lui costava troppo e peccava – forse – di troppa indipendenza in un periodo di “normalizzazione”) aveva usato i 6 mesi di sabbatico per cominciare ad organizzarsi il futuro.

Per questo aveva messo in fila le sue esperienze, le sue competenze,  e poi anche le sue conoscenze.

Qualcosa ne sarebbe sicuramente sortito. Qualcosa di buono, sperabilmente, ché anche in momenti di crisi dura chi  “ha un mestiere”, qualcosa trova.

Il risultato erano in realtà 2 ed erano scontati.

Una bella posizione di marketing, probabilmente nello stesso mercato, sicuramente  “temporary” o da consulente. In un’azienda più piccola (erano tutte più piccole della sua, in realtà).

Oppure un’attività da imprenditore in un mercato che conosceva bene per fare finalmente un po’ di quei soldi che aveva contribuito a “far fare” alla azienda. Non gli mancava niente: non  le esperienze, non le competenze, né le conoscenze e nemmeno i soldi per cominciare, nel caso.

Facile, no?

In realtà, no.

Qualcosa nella scelta (l’una e l’altra) non quadrava. Era facile, appunto. Era logica, certo. Era ineluttabile, forse. Ma  lasciava un tarlo libero a scorrazzare per la sua mente, scavando buchi nei quali strisciavano dubbi che non riusciva ad afferrare, che non sapeva fermare e fissare, che non era capace di infilzare in un’obiezione razionale e compiuta. Era un malessere che non sapeva, come un certo languorino, ma senza uno straccio di Ambrogio e un cioccolatino a provvedere.

Riemerso

Era successo che 3 giorni dopo essere diventato un “manager libero” sedeva alla scrivania di una media azienda con il compito di rimettere in piedi una nuova gamma di prodotti, identificare i canali di vendita più promettenti, definire le strategie di attacco al mercato. Tutto secondo  previsione. Ma, secondo previsione, non era convinto, né tantomeno  felice. Capiva che quello che stava facendo era quello che tutti, lui compreso, si aspettavano da lui. Ma non era quel che voleva fare.

Essere ancora alle dipendenze,  dover combattere ancora per far “trionfare la verità” erano la vita di prima, ormai francamente indigesta. Più di quanto avesse immaginato. Aveva dovuto sbatterci la faccia per capirlo bene, fino in fondo.

Per contro l’idea di mettersi da solo, tutto solo, lui che aveva sempre allevato e guidato gruppi di persone e con altre centinaia aveva sempre collaborato, ecco, stare tutto solo lo metteva a disagio. Così almeno se la raccontava. Ma il disagio era reale.

Jumping foward

Perché vi facciamo grazia di come e perché fu indotto a compilare il modello di profilazione PDA e perché vi raccontiamo direttamente cosa accadde poi.

Davanti alle ventitré pagine del suo profilo cominciò a misurare, a pesare e a pensare.

Certo, lui non aveva una grande propensione al rischio. Lo sapeva. Ma forse era il caso di convincersi finalmente che il suo malessere davanti all’ignoto era dovuto (anche) a questo aspetto del suo carattere. Di confessarlo a se stesso, prima di tutto.

Poi era estroverso ( sapeva anche questo) e nato per creare gruppi di persone che lavoravano bene tra loro e con lui.

D’altra parte aveva “scoperto” di essere piuttosto normativo ma sommamente impaziente. E che stare agli ordini non era più cosa per lui. Che se avesse ricominciato col vecchio “lavoro” ci sarebbe riuscito, ma avrebbe fatto violenza a se stesso, coltivando solo il suo stress. Perché era dotato di un grande self-control e nessuno avrebbe mai sospettato di nulla. Tranne lui.

Davanti al coach che gli “restituiva” il suo profilo prese la decisione della sua vita. Forse quella giusta. Certo quella che superava i disagi e i malesseri di prima. Decise che voleva lavorare con delle persone e che queste persone dovevano essere di suo gradimento, prima ancora che “brave, esperte o vincenti”. Decise che doveva stare in un gruppo (una società anche sua) dove nessuno era in diritto di dare ordini a nessuno. Decise che avrebbe continuato a fare le cose che sapeva, insieme ad altri, come consulente questa volta, ma che si sarebbe interessato anche di materie un po’ più “umane”, come quelle che gli aveva disvelato il PDA.

Decise. Decise lui. Perché il PDA non voleva né poteva farlo al suo posto. Ma gli era servito, eccome, per chiarire, orientare e poi, infine, appunto, decidere.

CONTINUA.

Il seguito si vedrà. Il futuro resta un’ipotesi.

 

Photo: Freepic

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